I soci raccontano

Ricordo di Gino Boldini

04/06/2020
In questo tempo di pandemia che vogliamo sperare si avvii a un’attenuazione anche se ci terrà in scacco per altri mesi si è conclusa una piccola grande vicenda umana che da vicino e da dentro tocca la nostra Ugolini e si inscrive nella sua storia. E’ anche la storia di vita di un uomo, Gino Boldini.

Racconto di Giovanni Capra

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Gino Boldini, Presidente onorario dell’Anpi di Brescia e comandante partigiano, combattente della 54esima Brigata Garibaldi, se ne è andato la sera del giorno di Pasqua all’età di 96 anni. Nato a Saviore dell’Adamello nel 1923, il sesto di otto fratelli, Gino cresce come tanti suoi coetanei abituato a rendersi utile già negli anni della scuola elementare, nella stalla, sui pascoli, nei mille piccoli lavori di una famiglia contadina di montagna. Le comunità di Cevo e di Saviore, abbarbicate alla valle e ai severi pendii che la circondano, vivono un profondo senso di appartenenza al loro territorio, interpreti in prima persona di una vita di sofferenze e rinunce. Nel 1° dopoguerra la povertà è diffusa, aumentano l’emigrazione e la disoccupazione. Temporaneo sollievo per la popolazione è il lavoro per la costruzione di dighe, centrali e condotte idroelettriche, in Salarno, In Arno e al Baitone. Arriva il fascismo, da fuori, e il maestro di Gino, Valentino Bonomelli viene schedato dai carabinieri come“ di buoni precedenti morali, ma ostile al movimento fascista e quale simpatizzante socialista, compreso negli elenchi dei sovversivi:” A Saviore e a Cevo la necessità di aiutarsi solidalmente e di difendersi dalla povertà e dalla fame promuove forte socialità fra una popolazione cattolica fervente ma con diffuse simpatie di ispirazione socialista umanitaria mentre il fascismo come ideologia rimane per la gran parte estraneo agli orientamenti della popolazione. Gino, a 14 anni si sposta a Domodossola dove trova lavoro in una ferriera e successivamente in Liguria dove fa il minatore ad aprire gallerie. Nella primavera del ’41 decide di far domanda per entrare nel corpo dei carabinieri. Viene accettato e nel ’43, Boldini, vent’anni, é militare di leva nei Regi Carabinieri, mobilitato a Trieste con il suo reggimento. L’8 settembre tutto si sfalda, i nazisti calano a occupare l’Italia. Per non cadere prigioniero dei tedeschi, Gino riesce a fuggire e a tornare a casa. Torna a fare il contadino aiutando il padre e la famiglia. Con altri giovani della valle renitenti ai bandi ai arruolamento della repubblica sociale, Gino si rifugia sui monti sopra Cevo. Della val Saviore e e della val Adamé, conosce bene gli anfratti, i ripari, le vie di fuga. Tra l’ottobre e il novembre del ’43, il gruppo si ingrossa. Arrivano numerosi i renitenti ma anche militari sbandati fra i quali Nino Parisi, siciliano, ma residente e sposato a Edolo. Boldini, da carabiniere diventa responsabile di polizia del gruppo e con l’appoggio di cittadini e di famiglie di Cevo e di Saviore contribuisce a costruire una solido rapporto di collaborazione e protezione reciproca con la popolazione.

La prevalente origine valsaviorese del gruppo assicura ai giovani ribelli il sostegno di familiari e amici, la complicità di conoscenti e l’abilità di sapersi muover a proprio agio nei centri abitati e negli alpeggi. Parisi diviene il comandante di quella che nel gennaio diviene la 54° Brigata Garibaldi. Determinante diventa il ruolo di Gino, forte nei principi, pacato e bonario ma fermo nelle decisioni, a impedire azioni provocatorie che mettano in pericolo la vita della popolazione. Durante tutto il ‘44 Cevo subisce numerosi rastrellamenti e molte sono le vittime di spietate rappresaglie, sia fra i partigiani che fra i civili,. Boldini stesso viene ferito seriamente in una sparatoria. Il rapporto di stima e fratellanza del gruppo partigiano con la popolazione spinge i comandi repubblichini di Brescia a un’offensiva feroce, Il 3 luglio 1944 centinaia di tedeschi e di brigatisti neri circondano il paese e incendiano gran parte delle abitazioni. Fra le fiamme e nella sparatoria muoiono anche abitanti inermi, fra cui donne, religiosi ed anziani. Ma i monti e gli alpeggi più alti alle spalle del paese rimangono liberi e i partigiani, di notte più che di giorno, aiutano la gente a ricostruire le case. Nonostante le enormi sofferenze per le vittime fra la popolazione civile e le deportazioni di alcuni fra i sostenitori delle azioni partigiane, Boldini è fra i primi a mantenere alto il morale e a garantire intesa, rispetto e collaborazione con gli abitanti di Cevo e di Saviore.

“Quella popolazione dimostrò in quella circostanza (3 luglio 1944) tutta la sua ammirazione verso i ribelli e l’ostilità contro di noi. E’ bene quindi che le conseguenze siano da quella gente sentite e gli siano d’esempio per l’avvenire. Maggiore Ferruccio Spadini, Comando Provinciale della G.N.R. – 4 gennaio 1945

E’ tra gli animatori della storica assemblea di valle in località Pratolungo (Pra Lonc) sopra Cevo il 3 settembre del ’44 che, nel corso di un’intera giornata, ebbe a rinsaldare la vita del paese con il movimento di Resistenza. Fino all’inverno la zona fu dichiarata “zona libera”.Gino fu anche tra i sostenitori di un accordo militare fra la 54° Brigata Garibaldi e le Fiamme Verdi operanti in alta Val Camonica per stabilire presidi di guardia alle dighe e alle centrali dell’alta valle. Si sapeva di un piano dei nazisti di far saltare le dighe e le condotte per isolare il passo del Tonale e garantire la via di ritirata alle truppe naziste. La progressiva disfatta morale e militare della repubblica sociale e dei tedeschi accelerò la caduta del regime fascista e la sconfitta dei nazisti.

Con la fine della lotta di Liberazione, Gino iniziò a studiare e a conseguire il diploma di geometra, ruolo lavorativo che svolse sia privatamente che sotto la Provincia di Brescia. Sposò Rina Michelotti, milanese e titolare della farmacia di Cevo. che per la Brigata trascriveva a macchina i rapporti da inviare al comando regionale garibaldino. Divenne guida alpina e fece conoscere a molti alpinisti le cime delle sue valli. Con la pensione si trasferì con la moglie e la figlia a Polpenazze dove prese a coltivare orti e olivi. Fu sempre attivo e presente alle iniziative partigiane, in particolare alla cerimonia dell 3 luglio di ogni anno in cui viene ricordato l’incendio di Cevo. Invitato più volte a raccontare nelle scuole l’esperienza partigiana, sapeva interessare i giovani con la sua proverbiale e arguta schiettezza. Ricevette la Croce al Merito di Guerra nel novembre 1966 e nel ’68 la Croce al Valor Militare dal Ministero della Difesa. Nell’aprile 2015, invitato al Quirinale, venne insignito della medaglia d’oro alla Resistenza dal presidente Sergio Mattarella.

Ma la storia non finisce qui.

Gino Boldini è stato anche un grande alpinista e le sue montagne della Resistenza, del Salarno e dell’Adamé sono le stesse del suo alpinismo. Nel 1956, con Sidamo Vailati e Giacomo Venturini traccia una variante alla via normale del Corno Gioià. Nel ‘57 sempre con Vailati apre una via sulla Parete Nord della Cima di Gana, e anche la prima salita della Sud dell’Anticima del Monte Fumo, la mitica “Boldini – De Giuli”. In suo onore sulla Parete Est del Corno Triangolo è stata aperta una salita chiamata “Via del Gino.

Il nostro carissimo Tino Bini lo ha avuto come grande amico e ci ricorda come Gino ebbe a complimentarsi con lui, nel 1976 quando Tino, Augusto Agnelli, Luigi Cesareni e Beppe Pignoli aprirono una nuova via sulla parete nord-ovest della Cima Buciaga, montagna che Gino e l’amico De Giuli conoscevano bene avendo aperto una via sulla cresta nord. Tino Bini, direttore del Corso di Roccia della Ugolini dal 1970 al 1974, lo volle come vicedirettore, conoscendo le sue qualità umane e il suo piglio carismatico, affabile e deciso. C’è un bel ricordo di Tino del maggio1974. Dal 24 al 26 maggio l’Ugolini organizzò il suo famoso Rally Scialpinistico che dal rifugio Lissone di val Adamè portò le squadre a salire la testata dell’Adamé, superare i salti rocciosi attrezzati con corde fisse, fino a toccare il Pian di Neve, raggiungere Cresta Croce e Quota Cannone e infine approdare al rifugio della Lobbia Alta. Tino ricorda come Gino che conosceva bene gli operatori ENEL della funivia che portava il personale in quota alle centrali e alla diga del lago d’Arno e si prestò ad ottenere per la Ugolini, il trasporto in quota dei materiali di gara e anche degli zaini dei concorrenti fin sotto il rifugio Lissone. Il nostro Ennio Ferrari ha avuto la fortuna di averlo come istruttore al corso di roccia nel 1973. Gino era stato esperto cacciatore e nelle pause del corso amava parlare di montagna e inseriva aneddoti divertenti di caccia e di resistenza. Ennio gli divenne amico e Gino gli fece conoscere la val Adamé, aspro retroterra roccioso con i ‘coster’ di quota orlati di poderosi appicchi di granito. Ennio prende rapidamente confidenza con gli alti gradi della roccia, inanella una lunga serie di vie classiche di alta difficoltà, diventa membro del CRU e apprezzato istruttore nei corsi di roccia. Nei primi anni ’80 il Gino gli dice che sul Corno Triangolo, alla testata della valle, c’è una via che aspetta ancora che qualcuno la sappia salire. “Io ormai sono troppo vecchio, ma se voi volete provare, io vi accompagno fino all’attacco.” Racconta Ennio: ”Orgogliosi di aver ricevuto la proposta io e Beppe Pignoli ci siamo recati a Saviore dove il Gino ci aspettava. Era l’agosto dell’83. Nel tragitto verso il parcheggio della valle Adamè ci fermiamo al Rifugio Stella Alpina dove conosciamo il suo compagno Berto Bonomelli, anche lui guida alpina. Con calma, zaini in spalla carichi di attrezzatura, siamo arrivati al Rifugio Lissone. Gino ci invitò ad entrare con lui per fare naturalmente quattro chiacchiere con il gestore e poi ci siamo incamminati per la valle. Arrivati alla malga Adamè ci siamo trattenuti con i malgari suoi cari amici. Gino è andato in stalla, ha preso il cavallo, l’ha imbastato ed abbiamo caricato gli zaini. Siamo saliti dentro la val Adamé e Gino ogni tanto ci mostrava gli anfratti dove durante la Resistenza nascondevano le armi o dove ci si poteva riparare, dove nascondersi, dove dormire. Siamo così arrivati alla sua capanna-rifugio che lui teneva sempre ordinata. Sistemato il cavallo, la sera Gino accese il fuoco, apparecchiò il tavolo, staccò un pezzo del lardo appeso al soffitto e con alcune erbe e della pasta preparò una buona minestra. Ci offrì del vino, e noi eravamo meravigliati da questo montanaro, cacciatore, guida alpina che ci aveva accolto come un fratello. Era l’ora di andare a dormire, e lui si spogliò, si mise una berretta in testa e una camicia da notte e andò a letto nella sua camera. L’indomani ci preparò il caffè, ci accompagnò alla base della parete e ci mostrò l’attacco. Partimmo e salimmo un paio di tiri. Eravamo dentro un diedro che strapiombava e ci mise a dura prova perché la fessura dentro il diedro era troppo larga per i nostri cunei. Provai a inserire una pietra a mo’ di cuneo che pareva solida. Mi issai in piedi ma dopo poco la pietra partì via di sotto. Rinunciammo. Io e Beppe tornammo l’anno seguente (30 agosto 1984) in compagnia di Giacomo e Alberto Stefani e con loro, riuscimmo a tracciare sul Corno Triangolo quella via nuova. Ovviamente la chiamammo “La via del Gino”. Ennio ricorda numerosi altri aneddoti. “Negli anni ’70 Gino fu invitato a un incontro di guide alpine al Brentei, C’erano i Detassis, gli Alimonta, i nomi che in montagna contavano e che allora noi ascoltavamo con attenzione e ammirazione. Il giorno dopo i partecipanti fissarono alcune mete d’arrampicata. Gino e il suo compagno Bonomelli forse meno abituati degli altri ai gradi alti delle vie del Brenta, o semplicemente perché decisero di scegliere un terreno di gioco a loro più familiare, salirono il canalone Neri, raggiunsero la cima della Tosa e tornarono al Brentei, scendendo lo stesso canalone Neri! Vedi, lui ha vissuto l’alpinismo in modo così… naturale, libero da schemi e da mode preordinate. L’’amico De Giuli che, guarda caso aveva simpatie politiche diverse,fu spesso suo compagno di cordata.Il Gino non era settario, al contrario era rispettoso di che aveva idee diverse. Mi ha scritto una bella dedica sul libro che racconta la sua vita. Lo ricordo come un vero “montagnard”, un autentico coerente montanaro.”

Con stile partigiano, Gino ha continuato così a tenere le mani nella terra. Se n’è andato in punta di piedi, portando sulle spalle lo zaino di una vita lunga, intensa ed operosa, vissuta con coerenza, fedele all’ideale di libertà e di amore per le sue montagne e per la sua gente. L’Ugolini lo ricorda e lo ringrazia.

Giovanni Capra